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15 luglio
SCIOLZE Castello

CLITENNESTRA

di Marguerite Yourcenar
regia Maria Luisa Bigai

traduzione di Maria Luisa Spaziani
pianoforte Alessandro Molinari
scena Dora Argento, Leslie Yarmo
luci Marco Catalucci
fonica Sandro Di Cello
collaboratore al progetto video Andrea Bassi
operatore Walter Lisi
montaggio Giulia Tronci
ricerche iconografiche Maya Briani

produzione Teatro Italia
assistente alla produzione
Filippo Alessi

Istanbul, anni Venti: in un famoso Caffè, un pianista accompagna, con pochi accordi, i preparativi dello spettacolo che sta per avere inizio. In un angolo, una donna, presumibilmente la chanteuse, racconta, con lucidità e passione, un crimine – il proprio crimine? O è un’ultima prova? O una fantasia ossessiva? – lo sfondo è quello di una Turchia che sta sì scoprendo l’occidentalizzazione imposta da Kemal Ataturk, ma non ha ancora pienamente cancellato l’ineffabilità dell’appartenenza ad un Oriente prodigioso e seducente, nel quale non è necessariamente distinguibile il reale dall’immaginario, il prodotto della ragione da quello dei fumi di sostanze oppiacee, con la consapevolezza che la realtà fisica sia quasi sempre ben più effimera di quella onirinica.
Il racconto della Donna è quello di Clitennestra, una Clitennestra descritta in chiave di sofferenza, di impotenza, che avverte in una passione d’amore tinta dei toni dell’assoluto, della totalità. E’ una delle eroine di Fuochi, l’opera scritta da Margherite Yourcenar alla metà degli anni Trenta, nella quale la scrittrice francese realizza una serie di personali ritratti di figure appartenenti al mito occidentali riproposte in abiti contemporanei; un’opera nella quale ella sviluppa una vera e propria ricerca di sé come persona e come artista, con un ripiegamento sui drammi dell’io che per lei si sarebbe rivelato fortemente terapeutico, quasi un’autoanalisi.
“Gli uomini non sono fatti per passare l’intera vita a scaldarsi le mani alla fiamma di un unico focolare: ecco Agamennone partire verso nuove conquiste, lasciandomi dov’ero…il tempo trascorso lontano da lui scorreva senza senso, goccia a goccia, o ad ondate, simile a sangue perduto, lasciandomi ogni giorno più povera d’avvenire”, lamenta Clitennestra nel racconto della Yourcenar, che incorpora alla Micene omerica la rustica terra ellenica all’epoca del conflitto tra Grecia e Turchia del 1924. Clitennestra ha ucciso per amore e per vendetta, e adesso riesce quasi a ridere di un Agammennone che ricorda tronfio e imbolsito, di un Egisto troppo giovane e insignificante per sostituirne la carica passionale: è una donna eternata nel mito, infinitamente inconsolabile, condannata a cercare per l’eternità lo sguardo dell’amato, la sua ombra smarrita nei meandri della memoria.
Attorno a lei riaffiorano, si rincorrono gli archetipi che discendono dal conflitto tra i Greci e i Troiani, quasi maschere, proiezioni mitiche che riappaiono e si sovrappongono alla realtà contemporanea. La Clitennestra che ci si pone di fronte, però, rivive ben al di là di un’attendibile collocazione storiografica, personaggio che sulla scena si muove, si racconta senza pudori e soprattutto senza pietà per se stessa, incapace di accettarsi per quello che è, come un’anziana diva dello spettacolo che  non ammette lo scorrere del tempo sul proprio corpo, sulla propria immagine. La sua potrebbe anche solo essere un’alienata identificazione con l’eroina del mito, sostanzialmente prigioniera delle proprie ossessioni amorose, di un lancinante carico di morte.
Lo spettacolo è la restituzione scenica di tutto questo: interventi video danno corpo a fantasmi, a memorie che persistono, non di rado inclementi. Echi registrati della voce di Clitennestra evocano la conservazione delle voci nelle stanze del tempo.
Un pianista (è Alessandro Molinari, che ha composto le sue musiche appositamente per lo spettacolo) accompagna le scene quasi come in un cinema muto, aumentando la dimensione onirica della rappresentazione. Nella quale una donna, presumibilmente rea confessa di uxoricidio, racconta la propria storia, o la propria versione della storia, ed in ciò coglie la misura estrema per esistere, reiteratamente, per l’uomo tanto amato.

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